Quando "comanda" la fotocamera
Inviato: gio feb 15, 2018 12:05 pm
Prendo spunto dalle considerazioni di Pier Maria, il quale, commentando la mia foto del faro, rilevava il peso del mezzo nella costruzione di quella immagine, fino quasi a determinarla.
Si tratta di un'osservazione molto pertinente. Io però non penso alla fotocamera come uno strumento al totale servizio della volontà precostituita del fotografo. Penso piuttosto a dinamiche di "cooperazione", in cui autore e mezzo diventano tutt'uno nell'atto di cogliere elementi che, con altri mezzi e altri stati d'animo, non si sarebbero magari neppure visti.
Consapevole che si tratti solo di un mio punto di vista, riporto qui di seguito il paragrafo del mio libricino "Dilemmi fotografici" dedicato all'amata Holga, da cui credo si evinca bene questo mio modo di intendere la fotografia.
Ogni contributo, di parole o di immagini, è ben accetto.
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La peculiarità della fotografia è di saper indagare gli interstizi della realtà, rivelandone porzioni altrimenti "invisibili" o inconoscibili. Svelare l’inconscio non è tanto mettere in mostra contenuti quanto rendere consapevoli di un mistero. In una fotografia è importante ciò che è presente ma anche ciò che non si vede, giacché l’immagine completamente satura, producendo solo un feticcio di conoscenza, non lascia spazio all’immaginazione e non muove il pensiero.
Nella fotografia, diversamente da altre arti figurative, una quota d’insaturo si impone per effetto di una libera “determinazione” dell’apparecchio fotografico, quel che Franco Vaccari chiamava inconscio tecnologico: un’autonoma capacità dello strumento di organizzare l’immagine in forme simboliche, indipendentemente dall’intervento del soggetto.
La fotografia nasce al collimare di una “preconcezione” con un evento. Tra l’idea e il fatto esterno c’è un insieme di fattori propri del mezzo che influenza il risultato finale facendo emergere dalla fotografia elementi imprevisti, “casuali”, eppure carichi di significanti capaci di avviare derive di senso. La fotografia è dunque in parte indipendente dalla volontà dell’autore e possiede una propria autonoma valenza conoscitiva. Ogni passaggio del processo fotografico aggiunge una quota di imprevedibilità, e quindi una opportunità di espansione di significati.
Ci sono apparecchi che sembrano fatti apposta per esaltare tali aspetti di anarchia creativa, e in cui l’inconscio proprio del mezzo risulta determinante. La Holga è uno di essi.
Fotogrammi accidentati, sfuocati, sottoesposti, margini di imperfezione in cui si annidano colonie di segni. I risultati di questo “giocattolo” di plastica appaiono spiazzanti e aleatori, eppure evocativi di istanze interiori familiari ancorché ignote. L’autore sente l’immagine finale appartenergli intimamente, sollecitare aspetti che egli non può ancora definire ma di cui adesso può avere consapevolezza. Consapevolezza di un mistero, quanto meno.
Quelle della Holga sono immagini senza tempo, fatte della stessa materia dei ricordi e dei sogni. Come i sogni, capaci di mostrare di noi più di quanto la più nitida delle immagini sappia fare. Perché la verità, intesa come “cosa in sé”, è inconoscibile se non come derivato narrativo, come trasfigurazione artistica o come domanda, che è poi la forma più pura di conoscenza.
La Holga ci pone sempre una domanda, e si guarda bene dal saturarla con risposte scontate.
Si tratta di un'osservazione molto pertinente. Io però non penso alla fotocamera come uno strumento al totale servizio della volontà precostituita del fotografo. Penso piuttosto a dinamiche di "cooperazione", in cui autore e mezzo diventano tutt'uno nell'atto di cogliere elementi che, con altri mezzi e altri stati d'animo, non si sarebbero magari neppure visti.
Consapevole che si tratti solo di un mio punto di vista, riporto qui di seguito il paragrafo del mio libricino "Dilemmi fotografici" dedicato all'amata Holga, da cui credo si evinca bene questo mio modo di intendere la fotografia.
Ogni contributo, di parole o di immagini, è ben accetto.
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La peculiarità della fotografia è di saper indagare gli interstizi della realtà, rivelandone porzioni altrimenti "invisibili" o inconoscibili. Svelare l’inconscio non è tanto mettere in mostra contenuti quanto rendere consapevoli di un mistero. In una fotografia è importante ciò che è presente ma anche ciò che non si vede, giacché l’immagine completamente satura, producendo solo un feticcio di conoscenza, non lascia spazio all’immaginazione e non muove il pensiero.
Nella fotografia, diversamente da altre arti figurative, una quota d’insaturo si impone per effetto di una libera “determinazione” dell’apparecchio fotografico, quel che Franco Vaccari chiamava inconscio tecnologico: un’autonoma capacità dello strumento di organizzare l’immagine in forme simboliche, indipendentemente dall’intervento del soggetto.
La fotografia nasce al collimare di una “preconcezione” con un evento. Tra l’idea e il fatto esterno c’è un insieme di fattori propri del mezzo che influenza il risultato finale facendo emergere dalla fotografia elementi imprevisti, “casuali”, eppure carichi di significanti capaci di avviare derive di senso. La fotografia è dunque in parte indipendente dalla volontà dell’autore e possiede una propria autonoma valenza conoscitiva. Ogni passaggio del processo fotografico aggiunge una quota di imprevedibilità, e quindi una opportunità di espansione di significati.
Ci sono apparecchi che sembrano fatti apposta per esaltare tali aspetti di anarchia creativa, e in cui l’inconscio proprio del mezzo risulta determinante. La Holga è uno di essi.
Fotogrammi accidentati, sfuocati, sottoesposti, margini di imperfezione in cui si annidano colonie di segni. I risultati di questo “giocattolo” di plastica appaiono spiazzanti e aleatori, eppure evocativi di istanze interiori familiari ancorché ignote. L’autore sente l’immagine finale appartenergli intimamente, sollecitare aspetti che egli non può ancora definire ma di cui adesso può avere consapevolezza. Consapevolezza di un mistero, quanto meno.
Quelle della Holga sono immagini senza tempo, fatte della stessa materia dei ricordi e dei sogni. Come i sogni, capaci di mostrare di noi più di quanto la più nitida delle immagini sappia fare. Perché la verità, intesa come “cosa in sé”, è inconoscibile se non come derivato narrativo, come trasfigurazione artistica o come domanda, che è poi la forma più pura di conoscenza.
La Holga ci pone sempre una domanda, e si guarda bene dal saturarla con risposte scontate.